Le tradizioni popolari
Ultima modifica 13 marzo 2024
Il territorio ha sorprendentemente conservato un patrimonio di cultura popolare autentico, tuttora profondamente sentito e radicato.
Le briose rappresentazioni delle tentazioni di Sant´Antonio Abate ad opera del diavolo, arcaica forma di teatro popolare itinerante, aprono in gennaio, in tutti i centri della vallata uno straordinario calendario rituale, che trova uno dei momenti più intensi poco più tardi, nei riti della Settimana Santa quando confraternite, incappucciati e penitenti scalzi, allestiscono ovunque le cerimonie del grande lutto per la morte del Cristo.
Con l´estate arrivano i pellegrinaggi nelle chiese campestri o agli eremi di montagna, le sfilate con doni, spesso alimentari, offerti ai santi protettori, i fuochi di ringraziamento che illuminano le notti.
Altre bizzarre ed insolite manifestazioni (la "corsa degli zingari" a piedi nudi su un colle, la grottesca processione in onore di San Martino auspice di fertilità e fedeltà coniugale) concludono il ciclo annuale di appuntamenti che scandiscono la vita della vallata, in cui cultura e territorio non hanno mai cessato di dialogare.
Un patrimonio intatto. Per un benessere autentico...
Sant´Antonio Abate
Il 17 gennaio si celebra anche in Abruzzo la festa di Sant´Antonio Abate: si tratta di una festa antichissima, circondata da molte leggende e caratterizzata soprattutto dall´orazione che si recita nei giorni precedenti la festa, indubbiamente il resto di una sacra rappresentazione medievale, lu Sant´Andonie, con canti d´argomento tratto dall´agiografia del popolare nacoreta. Il culto di Sant´Antonio fu tra i primi ad essere introdotto in Italia e in Abruzzo, grazie al diffondersi del monachesimo, già dal IV secolo. L´iconografia sacra rappresenta il Santo accompagnato dal maiale, simbolo della lussuria e del Demonio. Per la società agro-pastorale abruzzese, tale immagine, conferiva al Santo proprietà agricolo-protettive, in quanto il maiale costituiva un insostituibile mezzo di sostentamento materiale per la famiglia contadina. A Caramanico Terme è ancora oggi in uso il canto del Sant´Antonio con le rappresentazioni (similari) della compagnia del paese e di quella della frazione di Scagnano. Nelle piazzette del paese e delle contrade, le compagnie rappresentano le tentazioni del Santo protettore degli animali.
I Favoni
Nelle culture e nelle religioni di ogni parte del mondo il fuoco è elemento onnipresente e denso di implicazioni simboliche, spesso ambivalenti: diabolico e distruttivo ma anche benefico e purificatore, è perciò continuamente associato al sacro ed al divino, all´idea di catarsi e alla rinascita, alla vita che rigermina dalle ceneri.
Nella cultura tradizionale abruzzese l´uso rituale del fuoco accompagna costantemente -in analogia simbolica- tutte le fasi cruciali del ciclo solare, il perpetuo moto ascendente e discendente dell´astro che scandisce le stagioni e i tempi del lavoro umano, e che perciò è presenza vitale per le comunità che vivono dei frutti della terra.
Nelle tenebre e nel freddo dell´inverno il benefico effetto di luce e calore del sole è così invocato e riprodotto -ancora oggi in una miriade di centri della regione- nei falò di San Martino (11 novembre), dell´Immacolata, e soprattutto nei fuochi della vigilia di Natale, dove è evidente la connessione con l´antica festa pagana del "dies natalis" del sole, sostituita poi dalla celebrazione della nascita di Cristo.
Con il Natale si arriva ad un momento cruciale del calendario, il solstizio d´inverno, che segna la ripresa dell´ascesa del sole e l´approssimarsi della stagione della rinascita della vita, nei campi e negli ovili. Si arriva così alla festa di Sant´Antonio Abate, santo del fuoco per eccellenza (nei suoi molteplici significati), in onore del quale vengono arsi i più imponenti falò, tra cui le celebri "farchie" dei paesi della Majella Orientale.
Il solstizio estivo, trionfo del pieno vigore e della potenza solare, è celebrato soprattutto nei fuochi di San Giovanni Battista, mentre unico esempio di falò di piena estate sembrerebbero essere i "favoni" del 1° agosto a Caramanico, in apertura del mese dedicato all´Assunta, Protettrice del paese.
Il rituale caramanichese, ripreso quest´anno dopo decenni di oblio, è di grande suggestione visiva ed emotiva, poiché a sera le campagne ai piedi del monte Morrone ed altri svariati punti del paese, vengono illuminati dai bagliori del "fuoco sacro", alimentato da alte cataste di legna, paglia e rami offerti da devoti (che un tempo effettuavano per l´occasione un "viaggio" aggiuntivo di legna in montagna).
Ogni zona rurale o quartiere del centro, offriva alla Vergine il proprio falò, dando inizio alle celebrazioni in suo onore, e non mancava certo un sano spirito di rivalità, che spingeva ad una sorta di gara per la realizzazione del favone più imponente.
Non sembra che le ceneri fossero poi sparse sui campi con funzione di benedizione propiziatrice sul raccolto futuro (come nel caso delle "farchie" di Sant´ Antonio nei centri del chietino), e dunque i fuochi dell´Assunta vanno interpretati essenzialmente come devoto tributo dei caramanichesi alla loro Protettrice, attraverso l´uso rituale di uno degli strumenti più comuni e al tempo stesso più grandiosi e complessi delle culture di ogni tempo.
E´ evidente tuttavia, come i per palmentieri, che l´aspetto devozionale si inserisce nel substrato più arcaico delle cerimonie agrarie e solari di piena estate, celebrazioni spontanee dei doni della terra e del benefico potere del sole attraverso cui il mondo contadino affidava la sua stessa sopravvivenza alla protezione divina.
La ripresa di queste tradizioni, fortemente voluta, è il riannodare i fili della nostra identità,
riproponendo in un contesto socio-culturale ovviamente molto trasformato alcuni momenti distintivi della storia e della cultura locali.
I Palmentieri
Nella società preindustriale caratterizzata in Abruzzo, fino alla metà del novecento, da un´economia agro-pastorale, le feste tradizionali, quasi tutte legate a ricorrenze religiose, accompagnavano alcuni momenti cruciali della vita delle comunità, scandendo soprattutto le diverse fasi del lavoro dal quale si traeva sostentamento. Così, ad ogni momento decisivo del ciclo produttivo (semina, maturazione, raccolto...) corrispondevano rituali e cerimonie attraverso cui si affidava alla protezione divina il buon esito del lavoro.
In questo arcaico "calendario contadino" Agosto, culmine della mietitura, è il mese contrassegnato dalla tipologia della "festa di ringraziamento": si tratta di riti attraverso cui viene espressa la gratitudine per i prodotti raccolti dalla terra, con l´esposizione dei simboli del raccolto stesso (soprattutto grano) e l´offerta di doni alla Divinità, particolarmente alla Madonna, generatrice per eccellenza della Vita.
La festa dell´Assunta a Caramanico si colloca pienamente in questo quadro rituale: i palmentieri sono appunto donativi offerti a Maria SS. Assunta, protettrice del paese, consistenti in un cesto di vimini a base tonda, sormontato da una struttura conica ricoperta dalle tradizionali pizzelle (cialde dolci cotte in un apposito stampo in ferro con scanalature a "cancello"). Nel pomeriggio del 14 agosto, giorno dell´esposizione della venerata statua, ha luogo una pittoresca sfilata di giovani donne in tradizionale costume caramanichese recanti conche con spighe di grano e diversi palmentieri, che vengono poi deposti ai piedi della Vergine come devoto omaggio.
L´origine di questo donativo è da ricercare proprio nel filone degli "omaggi", diffusi in vari centri abruzzesi, costituiti da alberelli o rami (spesso di sempreverdi) addobbati con dolci e beni alimentari, offerti ai santi nelle loro festività.
Dei "maggi" si ha notizia a Caramanico già nel XVII sec. quando, in occasione delle principali feste religiose, a questi trofei vegetali venivano appese le "galanterie", biscotti speziati realizzati dalle Clarisse del convento di S. Giovanni Battista.
Nella radice del nome palmentieri ("palme") resta la traccia evidente di questa più antica tipologia, che veniva comunque affiancata da conche o canestri colmi di grano e cibo.
L´attuale forma a cono (presente solo a Caramanico e Sant´Eufemia a Majella) potrebbe essere nata proprio da un´ideale fusione dei due donativi (canestro e palma), come sembra indicare il ramoscello di alloro o di quercia che chiude a pennacchio il vertice del palmentiere.
La conca o il canestro sono del resto oggetti per antonomasia del mondo agrario -all´ interno del quale nascono questi riti- e soprattutto simboli della donna madre e contadina, che contribuisce al raccolto per poi dispensarlo con saggezza alla famiglia e offrirlo alla Divinità come obolo e auspicio di rinnovarne l´abbondanza. I Palmentieri sono dunque al tempo stesso sintesi della profonda devozione che lega i caramanichesi alla Vergine e frammento, fortunatamente sopravvissuto, di quel ricco mondo di saggezza e cultura contadina che costituisce la radice più autentica della nostra comunità.
Oltre ad essere simboliche offerte all´entità protettrice questi doni costituivano contemporaneamente un concreto strumento per realizzare la festa. La loro vendita all´asta (rimasta solo in altri centri) consente di ottenere fondi che oggi si aggiungono al denaro offerto nella questua, così come un tempo si aggiungevano a grano, formaggio, legna e ogni altro bene materiale donato dai locali.
Celestino V
Pietro da Morrone, figlio di Angelerio e di Maria Leone, nasce nel 1209 (1215?) in provincia di Terra di Lavoro, così come narra la Bolla di Canonizzazione di Clemente V del 1306. Numerose località, da allora, ne rivendicano la paternità. Fra queste, Macchia d´Isernia, Molise, Morrone del Sannio e in particolare Isernia e S. Angelo Limosano, entrambe forti di numerose testimonianze coeve.
All´età di venti anni, dopo una breve e sofferta permanenza nel monastero benedettino di S. Maria in Faifoli, fugge alla ricerca della solitudine estrema, sospinto da una profonda e consapevole vocazione religiosa, maturata nel clima di quell´Aspettativa Escatologica in gran parte ispirata da Gioacchino da Fiore "il calavrese... di spirito profetico dotato".
Le notizie intorno alla sua infanzia sono scarsissime. Dall´Autobiografia apprendiamo che era un bambino un po´ stravagante, bizzarro, solitario e sfaticato, tanto da essere detestato dai fratelli, che non volevano spendere soldi per mandare agli studi un "fannullone".
Sempre tormentato da incubi, ossessionato da orripilanti visioni e, soprattutto, dalle fastidiose polluzioni notturne, fra il 1230 e il 1235, fugge senza rimpianti dal suo villaggio, ben deciso a non farvi mai più ritorno. Dopo una brevissima sosta in una grotta in località Scontrone, presso Castel di Sangro, raggiunge il monte Palleno (oggi Porrara), dove trascorre tre anni in una caverna da lui stesso scavata nella roccia, nei pressi del sito dove poi sorgerà il santuario di S. Maria dell´Altare. Qui, accantonato l´originario progetto di recarsi a Roma, trascorre in assoluta solitudine uno dei periodi più fecondi per la maturazione della sua spiritualità instaurando, da solo, senza mediazioni gerarchiche, la prima parte del suo proficuo e lunghissimo dialogo con Dio.
In seguito, sospinto dalla gente dei luoghi vicini a farsi consacrare sacerdote, ma anche e soprattutto per sottrarsi all´indesiderata frequentazione dei pellegrini, si reca a Roma.
Quasi nulla si sa di questa sua esperienza, se non che prese alloggio presso il Laterano e che studiò con diligenza fino al conseguimento dei Voti.
Nel 1241 lascia Roma, ma invece di tornare sul Palleno, si ferma presso Sulmona, in località Segezzano, probabilmente dopo aver appreso che in quei luoghi aveva dimorato il famoso eremita Flaviano da Fossanova.
Anche qui, alle pendici del Morrone, trova riparo in una grotta presso la chiesetta di S. Maria di Segezzano, sulla quale sarà poi edificato il monastero di S. Spirito. In questa spelonca, Pietro comincia ad essere avvicinato da quelli che saranno i futuri discepoli. Si tratta di centinaia di giovani provenienti dalle vicine casupole di Bucchianico, Caramanico, Salle, Roccamorice, Pratola, attratti dalla sua crescente fama di santità, e vogliosi di condividere con lui le sofferenze e le privazioni della vita eremitica. Lui li accoglie suo malgrado, perché pur essendo animato da profondi sentimenti di generosità e di amore per il prossimo, non intende condividere con alcuno la sua solitudine.
Pietro è un uomo taciturno, silenzioso e riservato che fugge, quando può, la rumorosa invadenza dei suoi simili. Nel 1246, proprio perché insofferente alla frequentazione dei fedeli, che diventano sempre più numerosi e petulanti, abbandona l´eremo di Segezzano per rifugiarsi nella vicina Maiella dove, sull´orrida parete dell´Orso, alla Ripa Rossa, trova un primo, inaccessibile rifugio.
Successivamente si sposterà in uno fra i più impervi dirupi di quelle montagne, chiamato S. Spirito, quel S. Spirito di Maiella dove poi sarà edificato il famoso monastero che fino al giugno del 1293 sarà Caput Congregationis. Resterà per lunghi anni sulla Maiella, sempre in fuga dalle fastidiose turbe di fedeli che insidiavano la sua solitudine, e sempre alla ricerca di nuove e più irraggiungibili caverne, invano sperando nella loro capacità dissuasiva, perché masse di pellegrini poveri, infermi e disperati, per trovare conforto alle loro sofferenze, lo raggiungeranno ovunque, anche quando troverà rifugio nei proibitivi antri di S. Bartolomeo di Legio e di S. Giovanni sull´Orfento. Qui, sui monti della Maiella, negli anni che vanno dal 1246 al 1293, si consolida definitivamente la sua fama di venerabile taumaturgo.
Nel 1273, ormai sessantenne, si rende protagonista di un´avventura quasi leggendaria per quei tempi: per sostenere la causa della sua Congregazione che rischiava di essere soppressa, si reca a piedi (in pieno inverno) a Lione, dove stava per svolgersi il Concilio Lionese II. L´impresa fu coronata da successo perché la sua fama di santità aveva già da tempo varcato le Alpi, e Gregorio X ritenne di poterlo escludere dalla lista dei "sovversivi" che si annidavano nelle numerose sette ereticali tanto invise alle gerarchie ecclesiastiche dell´epoca.
Uomo mite, silenzioso, schivo, ma soprattutto umilissimo, Pietro condusse una vita sempre coerentemente ispirata ai canoni del cristianesimo primitivo e del pauperismo francescano. Penitenza, preghiera, silenzio, rigorosa astinenza, durissimi e prolungati digiuni, autofustigazione e mortificazione della carne: furono queste le direttrici che orientarono senza sosta e senza soluzione di continuità la sua lunga vicenda terrena. Una fiaba ben orchestrata da alcuni suoi falsi estimatori lo vuole uomo di potere, uomo d´organizzazione, uomo d´apparato, instancabile manager dedito alla costruzione di castelli e palazzi, ma Pietro da Morrone non fu mai nulla di tutto ciò. La gran parte dei possessi attribuiti alla sua Congregazione gli pervenne da donazioni e cessioni a vario titolo, delle quali quasi sempre ignorò non solo l´entità, ma l´esistenza stessa. Poiché, inoltre, egli non poté respingere la pressante richiesta di centinaia di giovani che, attratti dal suo carisma personale, aspiravano ad unirsi a lui, fu costretto a trasformare in Congregazione quella prima comunità informale e, di conseguenza, a consentire l´edificazione di luoghi di accoglienza, di assistenza e di culto.
Gli anni che vanno dal 1274 al 1293, sono quelli della perfezione e della pienezza del suo percorso spirituale. Soprattutto, sono gli anni in cui si radicalizza la sua vocazione eremitica in contrapposizione a quella cenobitica. Pietro da Morrone non fu mai uomo da "comunità", mai uomo d´"Ecclesia" in senso stretto, mai uomo da "assemblea dei fedeli", mai parte supina di un´informe massa di credenti accomunata da vincoli dogmatici, ma cristiano individuo che crede nel messaggio di povertà e di rinuncia proposto da Cristo; messaggio al quale si atterrà scrupolosamente, fino in fondo, fino alle estreme conseguenze.
Nel giugno del 1293, sempre sospinto dalla sua insopprimibile brama di solitudine, convoca il quarto (ed ultimo) Capitolo Generale e, tra la costernazione dei discepoli, comunica la sua irrevocabile decisione di volersi ritirare per sempre sul Morrone, essendo ormai giunto al termine del suo percorso terreno. A tale scopo farà scavare il famoso eremo di S. Onofrio, dove vivrà per tredici mesi in assoluta segregazione, recidendo tutti i contatti col mondo esterno, salvo quelli strettamente connessi alla sopravvivenza.
In quella spelonca Pietro vive i suoi ultimi giorni nel più profondo e consapevole godimento della grazia divina. E´ felice, appagato, sereno. I suoi conti con Dio sono in ordine. E´ ormai sicuro di essere giunto alla meta, e pregusta con gioia l´imminente realizzazione dell´unico grande sogno della sua vita: ricongiungersi a Dio e riconsegnargli l´anima pura e immacolata così come Lui gliel´aveva affidata. Ignora che la Storia è in agguato e sta per stanarlo da quella vera e propria anticamera del paradiso chiamata S. Onofrio.
Se fosse morto prima del 5 luglio del 1294, sarebbe rimasto uno sconosciuto, uno fra i tanti eremiti e "santoni" che a quei tempi pullulavano sulla dorsale appenninica abruzzese. Quel cinque di luglio gli fu fatale. A Perugia, gli undici cardinali superstiti che da 27 mesi, da quando cioè era scomparso Niccolò IV, si contendevano il Soglio di Pietro, lo elevarono al Sommo Pontificato. Quel giorno, ormai esausti, incapaci di comporre un conflitto fondato esclusivamente sulle bramosie di potere delle potenti famiglie degli Orsini e dei Colonna, compiendo un gesto di autentica irresponsabilità mai adeguatamente biasimato dagli storici, i cardinali-elettori gli accollarono un gravame per lui insostenibile e da lui, per altro, mai richiesto né, tanto meno, ambìto. Nella mischia (e quindi negli affari del Conclave) si era gettato anche Carlo II d´Angiò il quale aveva urgente bisogno di un papa che ratificasse l´accordo raggiunto con gli aragonesi per la restituzione della Sicilia. E fu proprio in quella occasione che il francese misurò la grinta del Cardinale Benedetto Caetani, il futuro Bonifacio VIII, il quale lo invitò, non molto garbatamente, a farsi gli affari suoi in casa sua, e a starsene quindi alla larga dalle vicende della Chiesa.
Il re, indignato per l´onta subita, ma anche disperato perché rischiava di veder vanificati gli effetti dell´intesa raggiunta, lascia Perugia, ma invece di procedere per Napoli si reca a Sulmona e gioca una carta che si rivelerà vincente: agendo sulle buona fede di Pietro, lo istiga a scrivere una strana lettera ai cardinali riuniti in conclave. In quella missiva Pietro sollecitava l´elezione del nuovo Papa, minacciando la collera di Dio se avessero ulteriormente protratto la vedovanza della "Sposa di Cristo". E quelli, come folgorati da una rivelazione del Cielo, individuarono proprio in lui, nel povero eremita morronese, l´agnello sacrificale al quale affidare, in uno dei momenti più drammatici dello scontro con il potere temporale, una Chiesa che aveva toccato il fondo della decenza morale e spirituale.
Fin da subito, però, la vittima sfuggì dalle loro mani, perché il nuovo Pontefice fu, di fatto, sequestrato dal re angioino, che ne fece un inconsapevole e prezioso strumento dei suoi maneggi politici.
Intorno a Celestino V, dal 29 agosto al 13 dicembre del 1294, pascoleranno faccendieri, maneggioni, affaristi, questuanti, trafficanti e "barattieri" d´ogni risma, che utilizzeranno il suo nome e le pergamene papali bollate in bianco, per concludere i loro turpi affari.
Costretto a lasciare l´Aquila per seguire il re a Napoli, Celestino comincia dapprima vagamente a meditare, nell´angusta cella che si era fatta costruire in Castel Nuovo, di deporre le insegne papali. Poi, quasi come folgorato da una rivelazione divina, comprende i motivi profondi del suo disagio: tramite la sua persona gli uomini che lo circondano stanno infangando l´onore e la dignità della "Sposa di Cristo" e questo per lui, che in altre questioni è mite e remissivo, è intollerabile.
E´ ormai vecchio, stanco, decrepito, consumato dagli acciacchi e da una vita fatta di stenti e di privazioni indicibili, ma trova il coraggio e la forza di opporsi a quello scempio.
Ergendosi come un guerriero in armi, ordinando a tutti di tacere, egli detta ed impone agli allibiti cardinali la sua rinuncia, incurante delle minacce del popolino napoletano che, sobillato dal re e forse anche da alcuni suoi discepoli, lo aggredisce devastando e saccheggiando la sua umile dimora. E´ il grande giorno. E´ il giorno del riscatto suo e delle Chiesa di Cristo. E´ il giorno in cui dimostra al mondo intero che in nome della fede si possono spostare anche le montagne. Come un gigante ferito, si ribella a quegli undici peccatori, li zittisce in nome di Dio e rinunzia (ecco perché non appartiene a Celestino V l´ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto, perché fu rinunzia , non rifiuto, e Dante conosceva benissimo la differenza fra i due termini !) a quell´incarico la cui ultima finalità era quella di dannare l´anima sua e di infangare il nome della Chiesa.
Quel 13 dicembre di settecento anni fa, colui il quale è passato alla storia come il capofila dei codardi, lascia il papato da trionfatore e da vincente: da trionfatore perché né le minacce, né le lusinghe dei "poteri forti" del suo tempo, riescono a tenerlo inchiodato ad un ruolo che non serviva a rendere gloria a Dio; vincente, perché vince la sola battaglia da lui combattuta, contro l´unico suo mortale nemico, il Maligno.
Povero Celestino! Pagherà duramente per questa sua inflessibile indisponibilità a servire gli interessi temporali di chiunque; sarà calunniato, offeso, vilipeso. Falsi estimatori e veri detrattori, riusciranno ad attribuirgli l´oscuro crittogramma dantesco che lo accusava di viltà e inettitudine. Ancora oggi questa calunnia trova numerosi consensi fra quanti ritengono di avere inequivocabilmente riconosciuto nell´"ombra di colui...", quella di Pietro da Morrone. E come se non bastasse, sul versante opposto, numerosi "estimatori", convinti di arricchire l´immagine del martire, provano ad attribuirgli inesistenti attitudini politico-manageriali-organizzative, costruendo così la caricatura di Pietro da Morrone.
Il 24 dicembre di quello stesso anno , a soli dodici giorni dalla sua rinunzia, con il prezioso apporto dei voti francesi pilotati da Carlo d´Angiò, è eletto papa Benedetto Caetani che assume il nome di Bonifacio VIII. Nasce fra il nuovo pontefice e il re di Napoli la torbida intesa che cancellerà d´un colpo la ruggine perugina e getterà lo scompiglio fra le file dei seguaci di Celestino, degli "spirituali", dei "fraticelli".
Nella notte del 1 gennaio del 1295, quando mancano 17 mesi alla fine del suo martirio, braccato come un pericoloso delinquente dalle polizie congiunte di Carlo d´Angiò e di Bonifacio VIII, il papa dimissionario fugge da S.Germano per raggiungere la sua amata cella sul Morrone e successivamente la Puglia, da dove tenterà l´imbarco per la Grecia.
Catturato presso Vieste e consegnato a Bonifacio, dopo essere stato "ospitato" nella dimora anagnina del Papa, è tradotto nell´orrenda torre di Castel Fumone dove resterà fino alla fine dei suoi giorni. La detenzione, nonostante le numerose falsificazioni addotte dai partigiani di Bonifacio, fu durissima; il rigore estremo di quella cattività è stato ampiamente documentato da tutti i cronisti dell´epoca.
Finalmente, dopo trecentodiciannove giorni di carcere duro, la sua bell´anima si svincola dall´aborrita carcassa di carne e ossa, per raggiungere la meta da sempre agognata: Dio. Sono le 16 (al vespro) di sabato 19 maggio 1296.
Quattrocento anni dopo, Lelio Marini, il più informato biografo del Santo (Pietro fu canonizzato il 5 maggio del 1313 da Clemente V) proverà a dimostrare, con un´accurata e puntigliosa disamina di numerosi reperti storici, che Pietro fu barbaramente ucciso per ordine di Bonifacio VIII. Da allora, da quel lontano 1630, su quell´episodio è calato il velo del silenzio, e un nuovo enigma, fra i tanti che l´avvolgono, si è aggiunto a quella straordinaria vicenda del tardo Medio Evo: quello della sua morte. E non v´è dubbio che si tratti di quello più inquietante. Se misterioso è ciò che appare e non appare, ciò che ha un volto e mille volti, ma soprattutto ciò che vaga fra le incrollabili certezze della storia e le impalpabili suggestioni della leggenda, la morte di Pietro Angelerio da Morrone che fu Papa Celestino V, è un evento misterioso.
Certo, un delitto è sempre un delitto, e tutti sanno che abitualmente "paga", per il buon motivo che gli autori (esecutori e mandanti), proprio perché giocano d´anticipo, all´insaputa della vittima e dei futuri investigatori, riescono a pre-confezionare gli avvenimenti (a costruirsi l´alibi) in modo da depistare le indagini. Ma nel caso della morte di Celestino tutto diventa ancora più nebuloso perché, quando tutti gli elementi sono acquisiti e riscontrati, sorge il problema della loro collocazione all´interno di un universo di valori (storico-etico- morali) univoco e quindi universalmente riconosciuto.
Tutti sanno che la conclusione del percorso terreno di Pietro non è stata naturale, eppure quella vicenda resta ai margini della percezione, non ha varcato i confini delle coscienze, non suscita emozioni; semplicemente non c´è. La verità su quella morte, così come emerge dalla pur complessa e multiforme congerie delle antiche scritture, è inconfutabile; eppure è stata resa irriconoscibile da una sorta di balletto pirandelliano in cui le più consistenti prove a favore della morte naturale sono spesso contenute nelle dichiarazioni dei "colpevolisti", mentre provengono dai più accaniti "innocentisti" le prove più solide a favore dell´accusa. Il mistero della morte di Celestino è tutto qui, nella verità espressa, ma non rivelata.
Ai margini della percezione rimane anche tutta la pregnanza del suo messaggio di pace e di tolleranza. Di fatto, in questi ultimi settecento anni, Celestino V è stato vittima dell´ignoranza, della mala fede e della disinformazione più o meno pianificata. Fu indicato di volta in volta come santo e stregone, miserabile e benestante, ignorante e colto, disciplinato e anarcoide, eretico e ortodosso.
La verità è che Pietro da Morrone, ancora oggi, è una mina vagante per i "poteri forti", laici ed ecclesiastici. La povertà, la continenza, la riservatezza, il disprezzo per il possesso e il rifiuto del potere, così come lui li ha vissuti e praticati, rappresentano valori fortemente trasgressivi e destabilizzanti per il "mercato", che si regge esclusivamente sulla cultura del più sfrenato consumismo e sulla dilapidazione delle risorse umane ed ambientali.
"La sua elezione fu una disgrazia per la Chiesa", impreca lo storico tedesco Peter Herde, occultando così la verità-vera e cioè che quella elezione fu una disgrazia soprattutto per lo sfortunato eremita. Pietro da Morrone è ancora oggi un uomo scomodo per alcune retroguardie del mondo cattolico, che non gli hanno mai perdonato il coraggioso gesto della rinuncia, col quale ha concretamente dimostrato che il potere non è tutto nella vita di un uomo, né il fatto che quel gesto fu anche (diamogli finalmente nome e cognome) un atto di vera e propria insubordinazione. Ma non è tutto: l´umile eremita del Morrone sconta ancora oggi la pena dell´ ostracismo, perché è accusato di aver instaurato un rapporto diretto con Dio, prescindendo dalla mediazione delle gerarchie ecclesiastiche; di essere stato formalmente un benedettino, ma sostanzialmente un francescano, un francescano di rottura, pauperista, "testamentario". E non gli è stata perdonata, infine, la sua ostinazione, il suo temperamento forte, "meridionale", il suo agire riservato e taciturno, in una società come la nostra dove trionfa il presenzialismo e il vaniloquio. Consiste in ciò la vera pericolosità di Pietro da Morrone. Il suo messaggio è devastante, perché, ove divulgato e recepito, manderebbe in frantumi la fatua impalcatura costruita dai venditori di felicità a prezzi stracciati. Non è certo un caso se la figura e l´opera di Pietro da Morrone sono stati rimossi dai testi di storia. Non è un caso se la ricerca del materiale che narra la vicenda di questo straordinario e sfortunato eroe medievale è talmente proibitiva da sfiancare anche il più ostinato investigatore.
E´ superfluo aggiungere che se sulla sua vita è stato steso il velo della rimozione, sulla sua morte è stato disposto un vero e proprio "silenzio di Stato". Evidentemente la morte di Celestino V non è proprio una di quelle morti che pesano come una piuma. Evidentemente c´è chi teme che quella verità porti con sé lo stravolgimento di chissà quali equilibri politico-religiosi. Ma quella verità non può più essere occultata, perché incombe su di noi oggi più che mai. Basti pensare che il presunto mandante di quell´omicidio fu papa Bonifacio VIII, "quello che inventò il Giubileo" Rendere giustizia (tentare di rendere giustizia) a tutti, alla vittima, come al presunto colpevole, è oggi possibile e necessario. Indagare sul "delitto Celestino" significa gettare uno sguardo sul nostro non lontano passato, un passato che non può lasciarci indifferenti anche se, ormai proiettati nel terzo millennio, riteniamo di aver acquisito una sorta d´immunità dalla barbarie. Forse non è cosi, forse la barbarie è ancora tra noi!